di Gianluca BERNARDINI

Prigioniero coreano

Per i coreani esiste una ferita che sanguina almeno da settant’anni ed è la divisione fra Nord e Sud. Due Paesi nemici, un unico popolo con le stesse radici. Questo lo sfondo per il ritorno di Kim Ki-Duk alla regia del suo ultimo film «Il prigioniero coreano», per narrare attraverso una storia semplice un dramma tutt’oggi presente. Nam Chul-woo è un umile pescatore della Corea del Nord che ogni giorno esce per pescare sulla linea del confine, quando una mattina, a causa della corrente troppo forte del fiume e della rete che s’impiglia nell’elica del motore della barca (da qui il titolo internazionale del film «The net – La rete»), si ritrova nelle acque nemiche e viene catturato. Inizia da qui il dramma del povero Nam per cercare di dimostrare alla prospera Corea del Sud di non essere una spia. Sorvegliato, interrogato, percosso, alla fine, grazie all’amicizia con il giovane poliziotto Oh Jin-woo, riesce a fare ritorno nel proprio Paese e soprattutto dalla sua amata famiglia che lo attende. Ma anche «a casa» deve dimostrare la propria integrità, dopo essere stato «infettato» dal capitalismo del Sud modernizzato. Non basta proclamare la propria fedeltà, non basta aver cercato di chiudere gli occhi al nuovo mondo, perché qualcosa è avvenuto dentro di sé, poiché quello che ha vissuto nonché visto, sia a Sud e poi di nuovo a Nord, hanno scombussolato non solo le più solide certezze, ma anche l’animo innocente di Nam, andato anch’esso, forse, alla deriva. Kim Ki-Duk gioca sul crinale di questa duplicità con la maestria che lo contraddistingue, portando in scena luci e ombre di un intero popolo spaccato in due da ragioni politiche, così pure viene messa alla sbarra sia la dittatura nordcoreana come la finta libertà democratica del Sud (bellissimo il dialogo con l’agente che sembra averlo preso a cuore). Un thriller dell’anima, attuale e moderno, capace di ritornare a porre quelle domande esistenziali che l’odierna realtà spesso tende a nascondere. Poiché alla fin fine le distanze (anche culturali) si accorciano quando al centro v’è il destino di ogni essere umano, in quanto «uomo». In questo senso non vi può essere nessuna separazione. Ancora una volta un’opera su cui riflettere di un regista tacciato in patria di essere un visionario e, invece, osannato in Europa per le sue capacità di raccontare le «nostre» vicende a volte fin troppo «umane».

Temi: Corea, patria, libertà, affetti, valori umani, dignità, destino.