Questa settimana al cinema un'offerta molto diversificata, per temi, atmosfere e anche storia produttiva. Da una parte, un atteso (insperato) ritorno che delude, dall'altra la meritatissima Palma d'oro di Cannes a Jafar Panahi, uno dei registi più ostacolati del mondo in termini di libertà personale e professionale.
Di Gabriele Lingiardi
Questa settimana la sala cinematografica vede due importanti ritorni. Uno fa infuriare, l’altro rimette in pace con la settima arte. Il primo sancisce la fine del pensionamento auto imposto di uno dei più grandi attori viventi (ma potremmo dire anche uno dei più grandi di sempre): Daniel Day-Lewis. Avrebbe voluto chiudere la carriera alle sue condizioni con Il filo nascosto (2017), bellissimo film di Paul Thomas Anderson. Invece il nepotismo, come da tradizione hollywoodiana, l’ha richiamato al dovere. Ronan Day-Lewis, suo figlio, aveva bisogno di un esordio alla regia con il botto mediatico. Così ecco Anemone, una sceneggiatura scritta a quattro mani tra padre e figlio per parlare… proprio del rapporto tra padre e figlio. Daniel Day-Lewis interpreta Ray, un uomo che vive isolato da tutti e viene raggiunto dal fratello con un messaggio: suo figlio ha bisogno di lui. Perché l’uomo si è nascosto? Darà una mano al ragazzo uscendo dal suo esilio? Eh già, la trama di Anemone sembra raccontare proprio la pigra storia produttiva. Con un cognome diverso nessun aspirante regista sarebbe riuscito a farsi produrre questo film, stracarico di simbolismi, ma senza niente da dire.
Il secondo ritorno è invece quello di Jafar Panahi, regista iraniano nel mirino del regime. Si tratta, come sempre, di un evento. Non solo perché ha vinto Cannes ma perché è un miracolo che sia riuscito a realizzare Un semplice incidente. Prodotto come sempre in clandestinità e con pochi mezzi racconta di un uomo che sembra riconoscere, dal cigolio della protesi di un cliente, l’aguzzino che l’aveva torturato in carcere. Raduna gli altri dissidenti, vittime del regime e del durissimo carcere. Insieme rapiscono l’uomo. A quel punto però che fare? Costui nega. L’unica prova che hanno è quel suono, non avendo mai potuto vedere in faccia il carceriere. Come farlo confessare? Torturare il torturatore e diventare come lui o fidarsi e lasciarlo andare? Come si spezza il male? La giustizia potrà mai esserci se, nel dubbio, si arrenderanno? E se tornasse a perpetrare altre torture?
Questa settimana il cinema ci racconta una verità dell’arte attraverso due film agli antipodi. Per realizzare un film basta avere la voglia, i mezzi, i “geni” giusti, ma questo non lo rende un buon film. Invece i limiti, la clandestinità, il rischio e le sanzioni politiche non sono un limite se gli artisti hanno qualcosa da dire. Se c’è l’urgenza, anche senza mezzi, si creano capolavori.