Novembre ha visto l'arrivo in sala de Il maestro, per la regia di Andrea Di Stefano con Pierfrancesco Favino e Tiziano Menichelli. Ancora una volta lo sport ci permette di parlare di autenticità dell'esperienza, delle catene della performance. E di educazione dei figli all'espressione di sé e contro l'etica della vittoria in sé. Ce ne parla Giovanni Scalera.

Di Giovanni Scalera

Il maestro 3

Il film di Andrea Di Stefano, “Il Maestro”, si maschera inizialmente da canonica commedia sportiva all’italiana, ma si rivela presto una complessa indagine filosofica sulla natura dell’identità, della crescita e del fallimento.

Dietro l’apparenza solare, piena di colore e tipica degli anni ’80, si svolge uno scontro tra due etiche esistenziali. Il vero campo da gioco non è il campo da tennis, ma la contrapposizione tra due visioni del mondo antitetiche, che richiamano direttamente il pensiero di Friedrich Nietzsche. Felice, l’allievo, incarna all’inizio l’etica dell’ascetismo e della negazione della vita in funzione di un ideale.

Il suo tennis meccanico, impassibile e logorante, imposto dal padre, è la metafora di una morale schiavistica (nella terminologia nietzschiana), che subordina l’essere al fare e la spontaneità alla disciplina. È l’eccesso di ordine e controllo, dove ogni istinto viene soffocato in nome della vittoria assoluta. L’irruzione dell’allenatore Raul Gatti, l’affascinante e inaffidabile ex campione caduto in disgrazia, è l’esplosione del vitalismo e dell’edonismo. Raul è l’incarnazione del dionisiaco: celebra gli istinti, l’eccesso, la passione e la bellezza del mondo, indipendentemente dalle conseguenze morali o pratiche.

I suoi consigli di idolatrare Guillermo Vilas – l’uomo di mondo che amava le discoteche e le cose belle della vita – riflettono il richiamo nietzschiano all’affermazione incondizionata della vita, anche nel suo aspetto autodistruttivo. La sua filosofia non mira al successo, ma alla pienezza dell’esperienza. Il loro incontro non è un allenamento, ma uno scambio in cui entrambi cambiano i valori e le idee fondamentali sulla vita.

Il film segue il percorso di crescita del giovane che deve rompere con gli insegnamenti razionali del padre per seguire un percorso più autentico, guidato dalle sue emozioni. Felice deve imparare ad affrontare il tennis come la vita stessa, superando il timore e l’autocontrollo in favore dell’azione offensiva e dell’espressione di sé. È proprio nella seconda parte del film, con la mancata tradizionale storia di rimonta, che il film rivela la sua ambizione più profonda, allineandosi pienamente a Nietzsche. L’incapacità di Felice di vincere e di Raul di redimersi non è un fallimento narrativo, ma un ripudio dell’etica della vittoria in sé. La vita, come suggerisce la trama, è caotica e complicata e non deve aderire al facile schema narrativo del riscatto.

Questa incertezza finale è l’affermazione dell’amore per il proprio destino: l’accettazione della vita in tutte le sue manifestazioni, inclusi il dolore, gli errori e il fallimento, come tappe essenziali della crescita. Motivo per cui la storia non verte sullo sport, ma sulla transizione esistenziale. L’unica vera vittoria è la crescita personale e la costruzione di un’identità al di fuori dei condizionamenti, un processo disordinato che non produce necessariamente il trofeo atteso, ma la consapevolezza di sé, realizzando la necessità di un’etica che celebri la vita, con tutti i suoi demoni complessi, come Raul Gatti.

 

Libro ispirato al tema del film: Open. La mia storia di Andre Agassi