Con altri occhi, la rubrica che propone visioni e provocazioni per animatori di sala, per poter presentare al meglio i film al proprio pubblico e poter scegliere al meglio i titoli da proiettare in rassegne e cineforum. Oggi parliamo di Sorry, We Missed You, il nuovo film di Ken Loach.

Di Gabriele Lingiardi

ken Loach

Passiamo 1/3 della nostra vita a lavorare, 1/3 a riposare per potere lavorare meglio. Il lavoro è azione, movimento, cambiamento, per certi versi è vita e il cinema lo sa bene. Non è un caso che, l’arte del tempo e del movimento, abbia raccontato sin dalle sue origini le vite (spesso alienanti) dei lavoratori. Ricordiamo Charlie Chaplin che esegue gesti ripetuti come una macchina dopo ore in fabbrica in Tempi moderni. Come dimenticare le proteste di Elio Petri con La classe operaia va in paradiso o le suggestioni neorealiste di Riso Amaro?.

Ken Loach è uno dei registi contemporanei che con più cura ed energia si sta occupando della condizione del lavoratore moderno. Il suo precedente film Io, Daniel Blake aveva vinto Cannes raccontando la storia di un muratore “analfabeta digitale” perso all’interno dei non-sense della burocrazia Inglese. Con la sua nuova opera Sorry, We Missed You, il regista prende di petto la cosiddetta gig economy, quella dipendente dalle nuove tecnologie. Non c’è un vero e proprio nemico nel film anche se, a dire il vero, ci sono numerose figure negative. Tutti i personaggi sono rabbiosi, affamati, e separati. Eppure una presenza incombe sulle loro vite, nascosta, ma sempre presente: internet, la connettività diffusa, le nuove automazioni che danno ritmi disumani alla vita lavorativa.

Raider e corrieri espressi. Dove finiscono i diritti?

Ken Loach con Sorry, We Missed You vuole evidenziare il sottile ricatto a cui sono sottoposti i lavoratori autonomi nelle grandi ditte di consegne. Molta responsabilità e poche tutele. Il rapporto lavorativo può trasformarsi in un inferno, come succede a Ricky, il protagonista del film, la cui storia è ispirata alle vere vicende di un corriere espresso che, per attendere ai ritmi massacranti ed evitare sanzioni aveva saltato importanti cure mediche rischiando la vita.

Ricky ha il desiderio di garantire alla famiglia un po’ di stabilità, grazie all’acquisto di una casa di proprietà. Sua moglie, Abby, fa l’infermiera a domicilio e incontra quotidianamente decine di malati a cui dare assistenza. Anche le sue giornate non hanno sosta, e vanno ben oltre i normali turni di 8 ore.

Tante storie in un film che avrebbe dovuto essere collettivo per avere speranza.


Ci sono tanti incontri in Sorry We Missed You. Quelli che fa Ricky quando consegna i pacchi non sono tutti positivi. A volte sono scortesi, conflittuali, problematici, ma altre volte sono uno spaccato di vita vera. Abby invece ha un rapporto diverso: le persone sono dipendenti da lei. È dolce e disponibile, instaura un rapporto più profondo con i suoi pazienti, spesso (al contrario di quello che può fare suo marito) diventa un membro della loro famiglia. Eppure entrambi hanno una casa, una famiglia, ma sembra che gli stia per sfuggire di mano a causa dei troppi impegni e, per certi versi, delle responsabilità.

Questi incontri non hanno però un filo conduttore, sono frammenti di umanità che non riescono a diventare infine una comunità e quindi a fare rete per salvare la coppia dalle difficoltà in cui versa. Ci sono tanti sguardi nel film, ma pochi si tramutano in azione. Ken Loach accusa chi conosce questa realtà, la osserva, ma non agisce.

Poca speranza per un film però dal grandissimo valore sociale.

In Io, Daniel Blake la tragedia veniva mitigata da un senso di possibile rivalsa, nato da una sorta di catena umana tra disperati, che si faceva però voce forte e dignitosa. Sorry We Missed You è più cupo e pessimista. Non c’è, forse, possibilità di uscire dalla spirale di “moderna schiavitù” finché si continua a vivere di essa. Il regista ci lascia con un forte senso di sospensione che ci obbliga a non lasciare il film sullo schermo, ma a farlo interagire con la vita vera. Per un pubblico preparato.