La dolce vita nella “città eterna”, con la voglia di tornare alle radici

di Gianluca BERNARDINI

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Torna a Cannes, dopo il successo del controverso «This Must Be the Place», Paolo Sorrentino e questa volta lo fa con un’opera del tutto singolare a partire dal titolo «La grande bellezza». Un film, uscito in questi giorni nelle sale, corale per la partecipazione di molti nostri bravi attori (tra i quali brillano Verdone e Ferilli) e profondamente «italiano» a partire dalla scelta della location, ovvero Roma che appare qui magnificamente «bella» con i suoi giardini, i palazzi e gli scorci più suggestivi. La «città eterna», vista di giorno e di notte, tra il sacro e il profano (soprattutto) è la dimora in cui è sbarcato a 26 anni Jep Gambarella (il grande Tony Servillo), giornalista napoletano «tuttologo», che ora a 65 anni, con un unico libro di successo all’attivo «L’apparato umano», scritto molti anni prima, vive l’Urbe tra incontri impossibili e serate «cafonal-trasgressive» fatte di alcol, droga, botox e tanti «bla bla». «Sono precipitato presto nel vortice della mondanità», dice la voice off di Jep che ci accompagna in tutto il racconto. «Non volevo diventare mondano, ma esserne il re. Non volevo solo partecipare alle feste, ma volevo avere il potere di farle finire». Feste vip o party mondani, dal sapore trash, dove vi si trova tutto e il contrario di tutto (perfino suore «santone» o cardinali che pensano più alla cucina che alle «cose spirituali»), che accompagnano il «viaggio» di Gambarella e di chi gli sta attorno, ma che finiscono nelle prime ore del mattino, quando ancora è buio, e lasciano nel silenzio il posto per un’amara riflessione sul passato (ricordi di gioventù e del primo, forse unico, grande amore), sul presente (fatto più di macchiette e fantasmi), ma soprattutto sul senso e la bellezza della vita (nobile e bella «nostalgia» che resta dentro). Certamente uno sguardo cinico, grottesco, sarcastico (scandito da una significativa colonna sonora) quello del regista «partenopeo» che anche se ricorda «La dolce vita» di Fellini mette in scena un altro tempo e un’altra Roma. Vizi (molti) e virtù (poche) di una città dove «si perde un sacco di tempo», dove si ha il sentore che «il vuoto» avanzi inesorabilmente. Unica salvezza il consiglio della incartapecorita suora: «Tornare alle radici». Un accenno di speranza, uno squarcio di azzurro (come il mare sognato) per ricominciare a vivere e a scrivere? Sì, forse, o meglio una possibilità per (ri)trovare quella bellezza tanto agognata.