Gianluca BERNARDINI

piena di grazia

Per rinnovare la propria fede bisogna tornare agli inizi, alle radici, al primo incontro. Partendo da questa prospettiva il film «Piena di grazia» di Andrew Hyatt, girato solo in dieci giorni, merita solo per questo. Siamo nel 43 dopo Cristo alle porte di Gerusalemme, a soli dieci anni circa dalla morte di Gesù, Maria (l’attrice algerina Bahia Haifi) sta vivendo i suoi ultimi giorni accanto alla giovane Zara (Kelsey Asbille) che si prede cura di lei. Pietro (Noam Jenkins), impegnato nella sua missione, torna per questo a farle visita insieme ad altri discepoli. La «Chiesa» degli inizi, nonostante l’entusiasmo, affronta le prime difficoltà e anche la sua stessa «guida» sembra vivere un tempo di crisi. Il dialogo con la «Madre» (come tutti la chiamano) farà rinvigorire la fede. La stessa che, come dice Maria, chiede di essere vissuta e non usata per «spiegare ogni cosa». Il regista e sceneggiatore americano, che ha studiato alla Loyola Marymount University (università cattolica con sede a Los Angeles, ndr), s’immerge nella realtà dei personaggi fino a renderli vicini e veri. Perché il racconto traspaia di umanità più che di santità. Per questo la telecamera si sofferma sui loro volti (tantissimi i primi piani) e soprattutto sulle loro parole. Sono queste, infatti, cariche di significato, ad accompagnare lo spettatore in una sorte di «meditazione». Ci sono i ricordi, ma soprattutto i «richiami» di Maria a ridare forza e coraggio. In un momento in cui le preoccupazioni sembrano smarrire la luce degli inizi così afferma: «Avete dimenticato la prima volta che vi ha guardati? Non la conservate come un tesoro? Quando avete detto di sì a Cristo, nello stesso modo l’avete portato nel mondo dentro il vostro cuore»; poiché «ricordare dove tutto è cominciato aiuterà a capire e come andrà a finire». Hyatt, cattolico, che ha vissuto un tempo di crisi prima di girare il film, entra nelle questioni vere di chi vive «un cammino di fede». Perché come dice Maria: «Non essere mai soddisfatti, essere continuamente alla ricerca, è la debolezza della nostra umanità». Intense le interpretazioni, densi i dialoghi, per un «piccolo» film, senza nessuna pretesa cinematografica («È più come guardare una preghiera, e meno come guardare un altro film basato sulla fede» afferma lo stesso regista), che merita senz’altro la nostra visione.