Sta facendo il giro delle sale italiane (e in particolare quelle di Comunità), un piccolo film importante: Aquile Randagie, diretto da Gianni Aureli e ispirato dalla storia vera di un piccolo gruppo di resistenza scout. Siamo nei primi anni del fascismo, Mussolini ha deciso di chiudere tutte le associazioni non assoggettate al regime. In segreto, un gruppo di giovani milanesi continua a riunirsi in Val Codera in una silenziosa ma ferma opposizione. Si chiamavano Aquile Randagie.

Di Gabriele Lingiardi

aquile randagie film

Per chi volesse approfondire la storia di Don Giovanni Barbareschi e del gruppo scout ricordiamo che è possibile acquistare il libro Chiamati a Libertà – parole e testimonianze di una vita appassionata edito da In Dialogo.
(Link: http://tinyurl.com/yxujhapw )

Abbiamo avuto la possibilità di parlare con il regista Gianni Aureli riguardo alle gioie e alle fatiche di una produzione simile e al senso di una frase molto importante nel film.

Come è nata l’idea di realizzare una storia sulle aquile randagie?

Abbiamo deciso di fare un film su questa storia perché pensiamo sia un fondamentale pezzo di storia d’Italia, purtroppo poco conosciuta al di fuori del mondo scout. Molte personalità importanti di quegli anni, tra cui Don Giovanni Barbareschi partirono proprio come Aquile e confluirono successivamente nel gruppo O.S.C.A.R (Organizzazione Scout Collocamento Assistenza Ricercati). La divulgazione tramite il mezzo cinematografico, che permette di uscire dai recinti e raccontare con le immagini e le emozioni questi avvenimenti, ci sembrava necessaria. Vogliamo aiutare questa storia a uscire dai “piccoli gruppi” e entrare nella cultura italiana.
È un tema che mi tocca molto da vicino poi, perché io stesso sono un Capo Scout. 

Quello dello scoutismo, una realtà forte e affermata in Italia, è però un mondo poco raccontato dal cinema. Come mai?

Il mondo dello scoutismo non è sottorappresentato. Non è affatto rappresentato! L’unico film con gli scout che ricordo è Dellamorte Dellamore, ma in quel film erano Zombie (ride). Quando ho capito che volevo fare il regista e sono andato alla ricerca di un’idea mi è venuta incontro questa incredibile esperienza di resistenza. Con stupore ho constatato che non era stata ancora raccontata, per cui ho deciso di farlo io. 

Il film è stato finanziato tramite crowdfunding, come è stata questa esperienza produttiva?

Abbiamo fatto due crowdfunding, uno in apertura uno in chiusura. Il primo sulla piattaforma “produzionidalbasso”: ogni giorno facevamo girare il link con il progetto e ricevevamo piccole somme da gente che credeva nel film, in cambio solo della presenza del loro nome sui titoli di coda. La seconda ondata di autofinanziamento è nata da un’idea dei due produttori: Francesco Losavio e Massimo Bertocci che hanno ideato la piattaforma 100 produttori in cui le persone potevano acquistare quote del film in cambio di utili sul risultato economico. Ovviamente nessuno ha partecipato credendo di diventare ricco, ma perché credevano nel progetto e volevano sostenerlo. 
Per tanti anni abbiamo ricevuto però molti no. Non è stato semplice trovare i finanziamenti.

Il film ha comunque un budget limitato: come si gira un film storico in Italia senza i soldi di una grande produzione?

Fortunatamente molta parte della storia si svolge in montagna per cui abbiamo potuto fare inquadrature larghe. In città siamo stati costretti a stringere sui dettagli. Non abbiamo girato a Milano, ma a Pavia, risparmiando soldi. In molte scene abbiamo lavorato sui costumi e le scenografie adattando ciò che avevamo a disposizione: giocavamo sui costumi, come si faceva con il vecchio cinema, cambiando i vestiti alle comparse e dando l’impressione di avere uno sfondo più ricco di persone di quante in realtà fossero.  Anche gli elementi di scenografia sono stati riutilizzati in più scene, ma sono messi con maestria: ci sono ma non ce ne si accorge. In altri punti abbiamo ritoccato in digitale i fondali aggiungendo le persone. Ci siamo ingegnati insomma. 

C’è qualcosa che ti ha sorpreso a livello di performance quando eri sul set e che non ti aspettavi sarebbe arrivato? 

La scena di Kelly e Baden che ascoltano la radio alla fine della guerra. Quando ho dato lo stop ero commosso dall’intensità degli attori: uno piange disperato, l’altro personaggio sembra invece che si sia veramente tolto un peso. Abbiamo fatto tre ciak di quella scena, era l’ultima della sessione di ripresa in montagna, emotivamente è stato un gran momento. 

Per essere fedeli bisogna essere ribelli”, è una frase significativa del film. Cosa significa per te al giorno d’oggi?

All’epoca queste parole risuonavano come una promessa di fedeltà a Dio e alla patria. Una promessa che non deve fare paura. Le parole sono le stesse di quelle imposte dai fascisti, ma il significato è completamente diverso. Per essere fedeli a quella promessa dovevano andare contro ciò che gli era imposto.
Al giorno d’oggi credo che i giovani d’oggi per essere ribelli debbano essere fedeli. La proposizione è invertita. Avere un’ideale, avere cura di un altro essere umano, fare il proprio dovere, sembra oggi un atto sovversivo.