Con altri occhi: Visioni e provocazioni cinematografiche per animatori di sala. Oggi parliamo di Vice (2019) di Adam McKay con Christian Bale, Sam Rockwell e Amy Adams

di Gabriele Lingiardi

Vice

Vice come vizio, vice come vice presidente degli Stati Uniti. Il nuovo film di Adam McKay, regista passato al cinema “di qualità” con La Grande Scommessa (2015) è una provocazione cinematografica perfetta, che prende lo spettatore e ne scuote la coscienza. Se sceglierete di proiettarlo nelle vostre sale aspettatevi di scatenare un acceso dibattito tra ammiratori e persone che respingeranno in toto il “gioco” filmico. Ma che cos’è Vice, perché è così importante e, soprattutto, che spunti di riflessione ci lascia? Proviamo a vederlo: con altri occhi

Vice racconta in maniera assolutamente parziale (come ammesso dal film stesso), ma il più possibile comprovata da elementi oggettivi,  la vita e l’operato di Dick Cheney, vicepresidente dell’epoca Bush Jr. Il ritratto che ne emerge è quanto mai inquietante. Etica e potere sono il centro  tematico dell’opera, ma sono articolati in maniera innovativa. Normalmente i film che si occupano di questo tema si concentrano sul dimostrare come la brama di potere corrompa le buone intenzioni. In Vice la prospettiva è ribaltata: McKay usa tutte le armi a sua disposizione (montaggio, narratore esterno, dialoghi) per gridare ad alta voce che, in questo caso, il potere è caduto nelle mani di un gruppo di sprovveduti.

Perché è un film di grande valore?

Ėjzenštejn (sì quello della Corazzata Potemkin) aveva teorizzato, assieme ad altri registi\filosofi, un nuovo uso del montaggio: accostando due immagini apparentemente slegate, come un generale che ordina una fucilazione seguito da una ripresa di un mattatoio nel pieno dell’attività, nella mente dello spettatore si crea un’associazione di significato che… comunica un qualcosa di nuovo, un qualcosa di terzo. Allo stesso modo la regia di Vice sceglie di essere esplicita interpellando la capacità dello spettatore di associare fatti, immagini e suggestioni. Nonostante si esca scossi dal film, veramente poco della tesi di Vice è proposto esplicitamente. È lo spettatore che unisce i puntini e tira le proprie conclusioni.

Come Michael Moore scuoteva la politica statunitense con il suo Fahrenheit 9/11 nel  2004, così oggi il film di McKay sta dividendo la critica e il pubblico in due fazioni quasi identiche. Non stupisce che questa divisione, rispecchi la naturale suddivisione dell’elettorato “made in U.S.A”.

Memorabile è la performance di Christian Bale nei panni di Cheney. L’attore è noto per la sua capacità di modellare il proprio corpo in base alle necessità dello schermo. Aveva perso 20 kg per interpretare “L’uomo senza sonno” (attenzione a cercarlo online, è impressionante) per poi riprenderli in massa muscolare interpretando Batman. Ecco, in Vice l’attore ne ha guadagnati 18 di kg, risultando pressoché irriconoscibile. Anche il cast di contorno è molto valido: se Steve Carrell nei panni di Donald Rumsfeld resta troppo sé stesso, Amy Adams interpreta una Lynne Cheney complessa e non meno agghiacciante del marito. Sam Rockwell, fresco del successo di 3 Manifesti a Ebbing Missouri, ritrae un George W. Bush come un adolescente che gioca a fare l’adulto su una scacchiera che non comprende appieno. McKay, in questo ritratto impietoso e sconcertante, sostiene di avere le spalle sufficientemente coperte rispetto ai fatti che elenca: sono tutti presi dall’autobiografia di Cheney, dal libro di Jane Mayer The Dark Side, riguardo la guerra del terrore e In My Time, che raccoglie le memorie del vicepresidente. Resta il fatto che, vedendo il film, è inevitabile ringraziare per il fatto che esista ancora la libertà di espressione. 

Ne parliamo?

In una divertente scena dopo i titoli di coda gli spettatori vengono presi in giro dal film. Eppure, oltre alla gag, si può leggere un chiaro invito a non lasciare l’opera in sala ma a parlarne, a farla lavorare nelle proprie coscienze e, perché no, a formarsi una propria posizione critica. Per questo motivo Vice brilla ancora di più, se viene data dopo la proiezione la possibilità agli spettatori di esprimere la propria posizione in un confronto costruttivo (a cui il film, volutamente, non lascia spazio nei suoi fotogrammi). Il dibattito può essere guidato fuori dalla questione meramente politica, ma indirizzato nel cercare di capire come la politica sia usata dal regista per dare uno sguardo sul mondo estremamente personale e “autoriale”, ma anche per offrire una denuncia che non può lasciare indifferenti. Per questo motivo fa parte del gioco il fatto che alcuni spettatori possano odiare il film, respingerlo, contestarlo a fondo. Ma è proprio questa la sua forza: non è un cinema, come spesso vediamo, che tiene per mano il fruitore dandogli ciò per cui ha pagato il biglietto ma quello di cui, ancora, non sa di avere bisogno. Vice grida quello che non si vuole sentire, impone un punto di vista, radicalizza, fa satira e denuncia come raramente abbiamo visto. Richiede però partecipazione, capacità di pensiero autonomo, coscienza critica. Potremmo vederlo come un esercizio di cittadinanza attiva, come arte che si fa stimolo sociale.  A McKay si addicono le provocazioni, allo spettatore le conclusioni.