Ora in sala il film del regista messicano che ci porta dentro la cucina di un ristorante newyorkese: una rappresentazione dura - ma fresca e che intrattiene - di cosa significa il lavoro nella ristorazione, tra sfruttamento, immigrazione e grandi aspirazioni.
Di Gabriele Lingiardi
Difficile trovare un titolo italiano più sbagliato di Aragoste a Manhattan. Meglio quello originale “La Cocina”, la cucina. Perché le aragoste sono sì al centro di un interessante dialogo di questo potente film, ma non sono tutto. Si spiega infatti che questi crostacei erano parte dell’alimentazione delle classi meno abbienti, fino a che gli imprenditori della cucina non ne hanno imposto artificialmente la nomea di piatto raffinato aumentandone il prezzo.
Quella sul capitalismo è solo una piccola parte della riflessione del regista Alonso Ruizpalacios. Si parla anche sull’economia dell’immigrazione, dei sogni dei cuochi e dei camerieri multietnici di The Grill, un ristorante al centro della Grande Mela. Il film, girato in un bianco e nero molto espressivo, diventa un melodramma personale che esplode in grida, insulti e deliri degni del Roman Polanski di Carnage.
Il riferimento più recente è però alla bellissima serie The Bear. Anche lì la cucina (intesa sia come spazio che come cibo) diventava sintesi di un’America composta come un puzzle da diverse culture di persone immigrate o figlie di immigrati. Tutti uniti dalle promesse tradite. Lo sanno bene i protagonisti di Aragoste a Manhattan mentre cercano di sopravvivere alla giornata di lavoro. Tante storie si intrecciano: si parte pedinando Estella mentre cerca Pedro, uno chef vissuto nel suo stesso villaggio. L’attenzione del film si sposta su di lui e poi ancora sulla sua amante Julia che deve decidere se abortire oppure no. Tra commedia grottesca e dramma sull’immigrazione si insinua un terzo genere: il giallo. Sono scomparsi dei soldi, chi li avrà presi? La dirigenza indaga.
Ruizpalacios usa i suoni dissonanti come farebbe Alfonso Cuarón: la macchinetta che stampa gli ordini fa da colonna sonora durante un pazzesco piano sequenza. Un’esperienza di visione non semplice, in cui però molto resta attaccato. Funziona questo scorcio inusuale sulla disperazione degli ultimi, sull’insolita solidarietà (bellissima la sequenza in cui un senzatetto si intrufola in cucina per chiedere del cibo) e su quel filo rosso che unisce la multiculturalità statunitense: il sogno americano di essere protagonisti della propria storia, il sogno di scomparire nell’anonimato della folla.
Temi: immigrazione, capitalismo, cucina, sfruttamento lavoro, aborto, sogni