Ovvero “la grazia dell’abbandono” in una storia che entra nell’animo

di Gianluca BERNARDINI

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Meritatamente candidato ai prossimi Accademy Awards come miglior film straniero, è uscito in questi giorni nelle sale italiane, «La sposa promessa», primo lungometraggio dell’ebrea Rama Burshtein. Di tradizione ortodossa e profondamente religiosa, la regista mette in scena una delicata e intensa storia d’amore che sembra trovare origine in un tempo altro e passato. Shira (la bravissima protagonista Hadas Yaron, «Coppa Volpi» all’ultimo Festival del Cinema di Venezia), diciottenne figlia più piccola di una famiglia di tradizione chassidica di Tel Aviv, promessa sposa ad un giovane della sua stessa età, si trova a dover fare una delle scelte più importanti della sua vita. La sorella maggiore Esther (Renana Raz) muore improvvisamente di parto abbandonando, oltre il suo piccolo, il marito Yochay (l’intenso Yiftach Klein) e l’intera famiglia nel dolore e nello sgomento. Tocca a Shira, se non vuole lasciare andare nel lontano Belgio il cognato e il nipote, «riempire il vuoto» («Fill the void», titolo originale del film). Obbligata, costretta dalla intraprendente madre e dalle sue tradizioni religiose? No, piuttosto «chiamata» a scegliere. È così che entra in gioco, sorprendentemente, la grazia dell’abbandono. Incomprensibile agli occhi umani, oltre le ragioni del cuore, ma dentro «un disegno» che viene dall’Alto, per lei si compie la «promessa». In un microcosmo forse troppo stretto e piccolo, si dipana davanti allo spettatore un racconto che apre ad un mondo nuovo. Sorprende, e non poco infatti,  il prezioso «gioiello» di una regista che nata a New York, dopo essersi diplomata alla Sam Spiegel Film and Television School di Gerusalemme, si è dedicata all’uso del cinema per promuovere l’autonomia espressiva della comunità ebraica (ultra)ortodossa. Dai colori tenui, accompagnato da una importante colonna sonora, «La sposa promessa» si fa a tratti pura poesia per raccontarci una storia che entra nell’animo e apre squarci d’infinito dietro le pieghe, a volte anche amare, dell’umana esistenza.