Le origini di un eroe e il senso della sua missione sulla Terra

di Gianluca BERNARDINI

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Esce nelle sale italiane in questi giorni uno degli attesi blockbuster dell’anno che nel mese di giugno ha sbancato il box office americano: «L’uomo d’acciaio» per la regia di Zack Snyder («300»). Prodotto da da Christopher Nolan e scritto da David S. Goyer (gli stessi della saga di «Batman») il film indaga sulle origini e sul senso della missione di uno dei più grandi eroi dei fumetti come «Superman». Ambizioso nel suo genere, il plot narra la storia di Kal-el (interpretato da adulto dallo statuario Henry Cavill), figlio di Jor-el (Russel Crowe) che prima della distruzione del pianeta Krypton invia sulla terra «il suo piccolo» che racchiude in sé non solo qualità umanamente superiori, ma tutto il gene e la speranza di sopravvivenza di un popolo. Trovato in Kansas e accolto dalla famiglia Kent (Kevin Costner e Diane Lane), Clark (Kal-el) crescerà come il figlio che la provvidenza dal cielo ha voluto loro donare in attesa di comprendere ogni cosa a suo tempo: «Tu sei il ponte tra i due mondi». Passano giusto 33 anni (non ci ricorda forse qualcosa?) prima che il giovane venga a conoscere le sue origini e svelarsi al mondo per quello che è. Nel frattempo Clark ha viaggiato a lungo, ha sperimentato le più disparate professioni, ha salvato molti, fuggendo al mondo e anche alle più nobili indiscrezioni. Finché non si imbatte nella giovane giornalista Lois Lane (Amy Adams) che, scoperta ogni cosa, manterrà il segreto per il bene dell’amato che nel frattempo si troverà a combattere contro le forze del male, impersonate dal generale Zod (Michael Shannon), «riapparso» sulla Terra per riprendersi il «codice» genetico e ricostruire nuovamente Krypton. Tra effetti a go-go (per questo assolutamente voluto pure in 3D), continui flashback e molte citazioni cristologiche (evidenti) il film si dipana tra passato e presente per più di due ore. I temi citati non sono indifferenti (rapporto tra padre e figlio, nonché quello col «Padre», lo spirito di sacrificio, la libertà, il libero arbitrio…), tuttavia pur essendo significativi avrebbero potuto trovare più spazio di approfondimento in una messa in scena senza dubbio «spettacolare», ma forse un po’ troppo pretenziosa. Senz’altro il finale lascia aperta la possibilità di un sequel, visti pure gli incassi che si prevedono davvero copiosi. La «speranza», si sa, è sempre l’ultima a morire.