Mother Lode, il film vincitore del premio FESCAAAL al 31° Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina è una scoperta: minatori, superstizioni e persone in cerca di fortuna inquadrate con freschezza e grande sapienza cinematografica dal regista Matteo Tortone.

di Gabriele Lingiardi

Mother Lode

Prendere i propri averi, lasciare la famiglia e andare in cerca di fortuna rischiando di trovare la morte. Un’azione drammatica, di rottura e di sofferenza, a cui sono ancora costretti molti giovani di tutto il mondo. Eppure la dignità del lavoro e la realizzazione umana attraverso le proprie opere nascono quando queste non sono costrette dalla disperazione, ma sono una libera e consapevole scelta. Allo stesso modo il denaro guadagnato può essere uno strumento di sostentamento a patto che non si muoia per guadagnarlo. “L’oro appartiene al diavolo”, viene detto nel film “Mother Lode” di Matteo Tortone. Perché quel bene prezioso chiede un tributo in termini di vite nella miniera La Rinconada, sulle Ande Peruviane. Seguiamo Jorge, un giovane con moglie e figlia che prova a mantenere lavorando nella grande città di Lima come taxista. Quando il suo trabiccolo si guasta, non avendo i mezzi per ripararlo, è costretto a cercare una nuova occupazione. Diventa così minatore, impara a immergersi in una roccia ostile, che secondo le leggende tramandate dai lavoratori trasforma in oro il sangue delle persone che lì dentro muoiono. Presentato nella Settimana della Critica alla Mostra del cinema di Venezia, “Mother Lode” ha vinto il premio FESCAAAL al 31° Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina. I meriti sono evidenti: girato in uno splendido bianco e nero, il film riflette sulle tante esistenze nascoste, che qui spesso si perdono nelle inquadrature ricche di dettagli. Mette come protagonista il più comune degli uomini e lo fa camminare in vicoli e sentieri pieni di azioni. Un’umanità indaffarata per la sua sopravvivenza, che sa essere solidale, ma che ha bisogno di tradizioni, credenze, gerarchie, per sostenere il loro disperato affanno. Non ci sono vittime né carnefici: tutti hanno colpe, schiacciati da un sistema che non vedono, non capiscono, e che li costringe ogni giorno a mettere in gioco la propria carne per una piccola particella di quel metallo a cui è affidata proprio la chiusura del film. Una pepita d’oro che, senza colori, emerge sullo schermo senza fascino. Un trofeo insensato. Noi possiamo identificare la causa della loro precarietà nel continuo mito della crescita senza fine. In quella tecnologia sempre più vorace di risorse che deve estrarre ad ogni costo. Con un’opera così potente si interiorizza il continuo vagare del suo protagonista e si ricorda, ancora una volta, che è la povertà di molti a sostenere la ricchezza di pochi.

Temi: povertà, lavoro, diritti, capitalismo, sfruttamento, ricerca della felicità