di Gianluca Bernardini

Ci sono opere che lasciano il segno. Non solo per la loro naturale bellezza, ma perché sanno arrivare al cuore di chi le guarda. Se poi pure colpiscono e sconvolgono nel profondo chi ne è stato in qualche modo protagonista, allora possiamo dire che hanno fatto centro.

Prova ne è «Opera senza autore» di Florian Henckel von Donnersmarck (che ricordiamo per il magnifico «Le vite degli altri»), presentato all’ultimo Festival di Venezia, che narra la vita del pittore Kurt Barnert (interpretato egregiamente da Tom Schilling), nato per essere un artista, ambientata in Germania nell’arco di tre epoche. Dai tempi del nazismo fino agli anni ’60, scorre sullo schermo la storia di una vera e propria «vocazione», imbevuta di un passato che ha segnato la sua famiglia e per sempre la sua stessa esistenza.

Denso, avvincente, carico di emozione, lungo tre ore, che per nulla si sentono grazie a un racconto così ben costruito e narrato, il film, ispirato a fatti realmente accaduti, prende lo spettatore fin dalle prime scene. In atto le vicende, senza sconti, di un Paese, diviso per lungo tempo tra il grigio «est» e il luminoso «ovest», vista con gli occhi di Kurt che fin da bambino, grazie alla zia, ha coltivato, nonostante tutto, la sua naturale vena artistica.

L’arte, così, non solo fa da sfondo, ma ne diviene co-protagonista. Essa unisce, divide, racconta, ma soprattutto scava nei meandri dell’umano, segnato da eventi che man mano, grazie alla sua singolare capacità di entrare in profondità, tornano in superficie. Fotografia, colori, interpretazione, tutto sembra che sia stato studiato per essere giustamente candidato agli Oscar da parte della stessa Germania. Da non perdere.

Temi: arte, pittura, vocazione, storia, nazismo, Germania, amore, famiglia, segreti.