In sala l'ultima fatica di Mike Leigh, un dramma autentico e commovente che vuole indagare le nostre fragilità. E ci riesce in modo splendido: da vedere.
Di Gabriele Lingiardi
Quanto dolore dentro Scomode verità! Nulla di esplicito visivamente (al massimo viene ripresa una schiena che fa male, nulla di più). È tutto contenuto nell’esistenza dei suoi personaggi: una famiglia nera nel Regno Unito. C’è un figlio sovrappeso e, apparentemente, buono a nulla. Un marito, apparentemente, senza personalità. Una donna, Patsy, apparentemente burbera. Una “Bisbetica domata” mischiata all’incapacità di godersi la vita tipica di Scrooge.
Mike Leigh, che firma anche la perfetta sceneggiatura del film, la segue da vicino sottoponendo lo spettatore a una prima metà di difficile tollerabilità in cui Patsy si lamenta continuamente. Incontentabile riversa i suoi monologhi a cena, litiga con la commessa di un negozio di arredamento, in fila al supermercato e mentre si sistema i capelli. La sua è una rabbia che inizia al risveglio saltando letteralmente dal letto – costantemente spaventata – e continua fino a che non si corica nuovamente sfinita. Patsy è il personaggio più insopportabile che si sia visto al cinema negli ultimi anni. Apparentemente!
Perché Scomode verità, nonostante il suo titolo, non è un thriller, ma uno studio psicologico di queste esistenze fragili, rotte in quell’interno misterioso e di difficile conoscenza che è l’intimità dell’anima. Leigh confeziona una meravigliosa opera d’arte che non può essere compresa se guardata perpendicolarmente a ciò che le immagini ci propongono. Il nostro sguardo deve giocare di sponda, comprendere i non detti e dare valore ai contro campi. Quando la cinepresa si rivolge agli ascoltatori dei deliri di Patsy si vede tutto un altro film attraverso i loro occhi. In quelli del marito non c’è rabbia, ma nemmeno passione, non c’è amore. Nulla. L’uomo è un contenitore svuotato, che riesce a piangere solo quando il fisico gli duole. In quelli della sorella Chantelle c’è invece un animo sereno, una cura verso di lei che si tramuta in una domanda: “Perché, Patsy, non riesci a goderti la vita?”.
Da qui nasce un ottimo film. Per comprenderlo, però, bisogna essere disposti ad entrare in sala provando a indagare ciò che, andando al cinema, di solito cerchiamo di evitare: il dolore personale.
Temi: dolore, famiglia, ascolto, comprensione, perdita, depressione