Siamo entrati nei festeggiamenti per #Fellini100, i 100 anni dalla nascita del grande regista cinque volte premio Oscar. I suoi film sono considerati capolavori del cinema mondiale, attualissimi anche oggi. Riguardiamo in questo approfondimento la carriera del maestro soffermandoci sul suo rapporto (combattuto, controverso ma affascinante) con la fede.

Di Gabriele Lingiardi

federico fellini

È la maledizione dei geni: essere avanti di molti anni rispetto al presente in cui vivono e, per questo motivo, non essere capiti. Non può esserci il genio senza la controversia così come non si possono rompere gli schemi predefiniti senza infastidire qualcuno o passare per rivoluzionari. Per fortuna c’è il tempo, che rivaluta, che fa ammettere gli errori, che fa luce sui significati nascosti.

Federico Fellini è stato spesso considerato un autore lontano dalla Chiesa e, soprattutto, da un’approccio confessionale alla trascendenza (quest’ultima invece molto presente nel suo cinema). La nozione è in parte vera; la sua critica al clero è esplicita in molte opere, ma non impedisce di leggere il suo corpus artistico nell’ottica Cristiana.

È stato Papa Francesco (con la sua voce autorevole) a sbloccare il “freno interpretativo” citando esplicitamente La Strada in una sua omelia. Al centro delle riflessioni del Pontefice è la “filosofia del sassolino”, esplicitata dal Matto a Gelsomina in un momento di debolezza della ragazza. Nel dialogo, Gelsomina si lamenta di sentirsi inutile e non servire a nessuno. Il Matto prende un sasso e glielo mostra chiedendole se sa a cosa serva. Nessuno lo sa, dice l’uomo, tranne il Padre Eterno! Ma il sasso serve qualcosa. Perché se il sasso non servisse a nulla allora, di conseguenza, significa che nulla può avere un’utilità. Neanche le stelle, e neanche Gelsomina. In questo dialogo, per il Papa, vi è un chiaro richiamo alla figura del credente che, come il Matto, va controcorrente e vede un disegno in ogni elemento del creato. Crede in Dio, e in una ragione alla vita.

Sin da piccolo Fellini si è trovato immerso nella cultura Cattolica, appartenente a una famiglia di credenti ha ricevuto i sacramenti e, da adulto, stretto amicizie con esponenti clericali tra cui il gesuita Angelo Arpa, suo caro amico. L’immaginario da lui espresso è, nel pensiero comune, associato ad una fantasia sfrenata e onirica, dai tratti grotteschi. Eppure il primo approccio al cinema per Fellini è legato al racconto della realtà. Scrive infatti Roma Città Aperta, uno dei film simboli del neorealismo, assieme al regista Roberto Rossellini. Con le sue sceneggiature affronta anche direttamente temi religiosi come nel film Francesco, giullare di Dio (sempre di Rossellini) in cui però il tema della santità è già irrorato dalla frenesia infantile (che scandalizza) e ieratica tipica delle sue produzioni successive.

In ogni film di Fellini c’è sempre un senso di spiritualità che permea le vicende dei protagonisti, un’aura di misticismo non allineata ai dettami di una religione, ma legata a doppio filo con il conflitto terreno della psiche. La vita di Fellini cambia radicalmente con il trasferimento da Rimini a Roma. Profondamente scaramantico, egli incontra il sensitivo Gustavo Roi che lo suggestiona con immagini e premonizioni dalla trascendenza. All’interesse per l’invisibile si aggiunge anche l’incontro con la psicanalisi Junghiana. I sogni diventano l’ispirazione simbolica entro cui si svolgono le storie. Il tema del ricordo, della nostalgia (Amarcord), dell’incontro con fantasmi della psiche (Giulietta degli spiriti), lo aiutano a proiettare l’Italia verso gli anni del Boom economico. Non c’è più l’interesse neorealista per l’operaio stanco che ritorna a casa, ma per l’interiorità di questo individuo o, più in là nella carriera, per una classe borghese che sta imparando a vivere la sua condizione.

La dolce vita fu il film maggiormente oggetto del contendere: divise tutti alla sua uscita. Persino il produttore lo riteneva eccessivamente complesso per il pubblico. Venne effettuata un’interrogazione parlamentare per ritirarlo dagli schermi per via di contenuti considerati osceni. L’Osservatore Romano si scagliò contro il film con due articoli intitolati “Basta!” e “La sconcia vita”. Nazareno Taddei, Gesuita del San fedele di Milano, scrisse un articolo intitolato “Vita non dolce” che dava una lettura confessionale al film. Una rivalutazione in piena regola, compiuta individuando la presenza della Grazia sul finale, raffigurata nell’immagine di Paolina, che osserva Marcello oramai stanco dai guazzabugli orgiastici. Mentre l’uomo se ne va lei gli dice: “vai pure, al prossimo bivio mi troverai ancora lì ad aspettarti!”. Nazareno Taddei subì un esilio di qualche mese per via della sua recensione, controcorrente rispetto al sentire dell’epoca. Eppure, interrogato su cosa fosse per lui la Grazia, Fellini confermò la lettura del sacerdote e rispose: “è quella realtà, come Paolina, che tu non capisci e la rifiuti, ma lei sorride e ti dice: Vai pure! Mi troverai sempre ad aspettarti!”.

Un’interpretazione simile è stata data da Pier Paolo Pasolini che vide ne La dolce vita un’opera legata alla Fede: «L’ideologia di Fellini s’identifica all’ideologia di tipo cattolico» diceva «l’unica problematica ravvisabile nella Dolce vita è il rapporto non dialettico tra peccato e innocenza: dico non dialettico perché regolato dalla Grazia».

Eppure all’epoca (1960) lo shock fu notevole, tanto che persino la madre di Fellini ammise di “non capire come il figlio avesse potuto girare un film del genere”. Ma pian piano la Dolce Vita entrò nella cultura Italiana (l’abito dolcevita è nato dai costumi del film, così come il riferimento ai fotografi come “paparazzi”). Con il tempo emerse sempre di più l’aspetto della storia decadente, spirituale e psichico, rispetto a quello scandaloso. Il già citato finale, modificato da Fellini assieme all’amico Angelo Arpa per evitare la censura, è stato usato come aggancio per una lettura spirituale della storia ad oggi attestata.

Il cinema di Fellini ci interroga, ci colpisce nella carne per elevare lo spirito. Come lui stesso disse di La Dolce Vita: “Ho fatto un film con la convinzione che possa fare del bene, non per appagare istinti morbosi; credevo di essere aiutato a preparare il pubblico a cogliere nel mio film quello che c’è di elevato, ed invece è con profonda amarezza che mi sono accorto del tentativo di distruggere proprio questa parte di successo che era quella alla quale tenevo di più”.

È una bella sfida rileggere proprio sotto l’aspetto religioso il corpus di opere Felliniane. È forse questo un terreno ancora molto vasto da esplorare, tenendo di fronte agli occhi le parole da lui pronunciate: “Ho bisogno di credere. È un bisogno né vivo né maturo, per la verità. È un bisogno infantile di sentirmi protetto, di essere giudicato benevolmente, capito, e possibilmente perdonato”.